lunedì 12 aprile 2010

Ciliegia, arancia e consumismo

(Di Enzo Baglieri, direttore della Unit Produzione e Tecnologia della Sda Bocconi)

Nel comune concetto di filiera corta, sostenibile ed etichette "bio" possono esserci equivoci.
Il timore di patologie di origine animale, un maggiore discernimento nell’acquisto di alimentari e il consolidamento di visioni identitarie e localiste hanno fatto maturare negli ultimi anni una forte sensibilità della domanda verso forme di consumo ‘sostenibili’. Ne sono nate in diverse regioni soprattutto del nord Italia iniziative tese a privilegiare i prodotti locali o a ‘km zero’, che hanno favorito la nascita di una rete locale a km zero e che inducono a pensare alla creazione di una apposita etichetta di ‘sostenibilità’. Nel 2008 queste iniziative hanno favorito l’approvazione ad es. della legge regionale Veneto n.7/2008, che prevede la presenza di alimenti legati al territorio, nelle mense di asili nido, scuole, ospedali, residenze per anziani e nei menù della ristorazione. Vanno però distinti i prodotti ‘locali’ e ‘legati al territorio’ dal concetto  ‘sostenibili’.
Il recente aumento di sensibilità verso il consumo “sostenibile” si è implicitamente tradotto nel recupero sia di modelli produttivi diversi dalla grande industria, sia del concetto di identità locale. Non esiste garanzia, tuttavia, che il prodotto locale sia per definizione sostenibile, poiché sono ormai rare le forme di produzione che non fanno ricorso a soluzioni meccanizzate e all’impiego di materiali ausiliari di sintesi (fertilizzanti, insetticidi, ecc.). Anche il cosiddetto “biologico” che è sostenibile se si associa a catene distributive molto corte e all’impiego di soluzioni logistiche (=trasporto) sostenibili, perde la sua sostenibilità quando la filiera si allunga  pur restando biologico, come ad esempio i prodotti "bio" della grande distribuzione. La nascita di nuove forme distributive quali i farmer market, i farm shop o la consegna a domicilio continueranno così ad alimentare la confusione tra il concetto di territorialità e di protezione del patrimonio locale e quello di sostenibilità, almeno fino all'introduzione di una formula oggettiva di certificazione della sostenibilità dei processi e delle tecnologie di coltura, allevamento, produzione e trasporto.
Negli ultimi 50 anni i metodi di coltura e allevamento tradizionali sono stati trascurati a vantaggio di una forte meccanizzazione dei processi produttivi, dell’utilizzo di sostanze di sintesi a protezione delle colture, della selezione delle varietà per la robustezza della coltura, l’aspetto estetico e la ‘trasportabilità’. Le prassi sostenibili dei nostri avi (come la combinazione tra allevamento animale e colture praticate per facilitare la chiusura del ciclo dei rifiuti di entrambe le produzioni, e l’adozione di sostanze naturali a protezione della coltura) non si adeguano con la richiesta di produttività che è seguita allo sviluppo dei grandi sistemi distributivi organizzati. 
Il risultato delle moderne tecniche colturali per far fronte alla domanda dei consumatori è, tra. l'altro, l'aumento di una domanda sensibile alla varietà e slegata dalla stagionalità del consumo. La soddisfazione della domanda si è tradotta però in una sostanziale globalizzazione della fornitura agro-alimentare e in una crescita del potere contrattuale della grande distribuzione.
Dal punto di vista della tutela del consumo, dunque, la questione non sta tanto nell'acquisto di prodotti locali quanto piuttosto nell'introduzione di un sistema che garantisca un'adeguata qualità degli stessi, dal momento che le tecniche colturali sono sostanzialmente le medesime della grande distribuzione, come abbiamo visto.
In ultima analisi, bisognerebbe riflettere sui modelli di consumo: finché il consumatore continuerà a voler comprare ciliegie in inverno e arance in estate sarà impossibile progettare sistemi di produzione, trasporto e distribuzione che siano implicitamente anche sostenibili.
(Fonte: Via Sarfatti 25)

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